L’avvocato collaboratore, che si introduce nel server di studio e copia una notevole mole di files, per riutilizzarli nel nuovo studio e condividerli con i colleghi, risponde di accesso abusivo a sistema informatico.

La Corte di Cassazione, quinta sezione penale, stabilisce il delitto di cui all’art. 615 ter c.p. sulla base dei seguenti elementi: a) la qualifica dell’imputato medesimo, mero collaboratore, incaricato di gestire solo un determinato pacchetto di clienti; b) il notevolissimo numero di files copiati e trasferiti su altri supporti magnetici, aventi tra l’altro ad oggetto contratti, rapporti ed atti del tutto estranei alla specifica “competenza per materia” affidata all’imputato; c) la specifica tecnica di copiatura, realizzata attraverso un sofisticato sistema a “matrioska”, in modo che i files copiati venissero occultati in sottocartelle, per nasconderne la provenienza.

Al caso si pongono due questioni: la violazione della privacy (di clienti e avvocati del vecchio studio) e l’accesso abusivo al server.

Per quanto riguarda l’accesso abusivo al server, la Cassazione ha precisato che il fatto che la persona condannata avesse accesso al server non esclude la punibilità, i file prelevati non rientrano tra quelli relativi al settore affidato contrattualmente all’avvocato. Questi aveva sì libero accesso al server, ma solo per i file che interessavano le pratiche a lui affidate e non a tutto il materiale documentale conservato.

Pertanto, l’imputato ha posto in essere le attività di accesso, successiva permanenza e copiatura di files all’interno dell’archivio informatico dello studio – ontologicamente incompatibili con le sue circoscritte mansioni di collaboratore e non di partner – in violazione del dissenso tacito dei titolari di studio che, a tal fine, gli avevano immediatamente vietato l’accesso al server, consentendogli di acquisire i documenti necessari solo per il tramite della segreteria.

A ciò si aggiunge, prosegue la Corte con sentenza n. 11994 del 13 marzo 2017, il trattamento illecito di dati personali di cui all’art. 167 D.Lgs. n. 196/2003, stante i numerosi “dati personali” contenuti nei files copiati, riguardanti i singoli clienti affidatisi allo studio per la cura dei propri interessi (che ovviamente non avevano prestato il loro consenso al suddetto trattamento). Quanto al dolo specifico richiesto da tale fattispecie, lo stesso è rinvenibile dalla stessa condotta del reo, laddove i dati in questione erano evidentemente destinati al riutilizzo in altra sua attività professionale (come si evince dal loro rinvenimento nei supporti informatici del nuovo studio).

Fonte: Italia Oggi del 20 marzo 2017